La legge di Bilancio approvata alla fine dello scorso anno ha aumentato i soldi destinati al fondo per le politiche per le persone con disabilità: dai 300 milioni di euro previsti per il 2022 si è passati a 350 milioni all’anno fino al 2026, che servono a finanziare molti servizi indispensabili dedicati anche alle persone che eventualmente le assistono.
Purtroppo però in Italia non si sa quante siano effettivamente le persone con disabilità. Analogo problema anche per quanto riguarda dati certi e numeri corretti sulla violenza sulle donne.
Una delle conseguenze di questa carenza è che tutte le politiche di sostegno e assistenza, non esclusivamente sanitarie, così come i fondi specifici per l’inclusione, l’accesso al lavoro, all’istruzione e allo sport o ancora l’eliminazione delle barriere architettoniche e la progettazione di luoghi inclusivi sono stati pensati e finanziati sulla base di stime approssimative.
La disabilità però non riguarda esclusivamente la presenza di un deficit fisico o psichico. È un concetto ripreso dalla Convenzione delle Nazioni Unite (ONU) del 2006 che ha spostato l’attenzione dalle condizioni individuali al contesto sociale della persona con disabilità in quanto protagonista di relazioni con ambienti e persone. La convenzione spiega che le persone con disabilità «presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
Rispetto al passato viene quindi data molta più importanza alla dimensione sociale della disabilità che secondo questo approccio, ormai consolidato, può essere considerata una manifestazione grave dell’incapacità di una società di assicurare l’uguaglianza alle persone con problemi di salute.
In Italia, secondo la piattaforma Disabilità in cifre dell’ISTAT e relativa al 2019, le persone che soffrono di gravi limitazioni che impediscono loro di svolgere attività abituali sono circa 3 milioni e 100 mila, pari al 5,2 per cento della popolazione.
La stima dell’ISTAT sull’incidenza della disabilità in Italia, che tra le altre cose viene utilizzata dal governo per programmare le politiche e i relativi finanziamenti, è il risultato di un’indagine generale chiamata “Aspetti della vita quotidiana”.
A un campione di 20mila famiglie o 50mila persone vengono fatte diverse domande, tra cui questa: “A causa di problemi di salute, in che misura lei ha delle limitazioni, che durano da almeno sei mesi, nelle attività che le persone abitualmente svolgono?” Le risposte possibili sono tre: limitazioni gravi, limitazioni non gravi, nessuna limitazione.
Secondo l’indagine, l’incidenza di persone con disabilità è più alta nelle isole, Sardegna e Sicilia, con il 6,5%, mentre il valore più basso è al Nord Ovest, 4,5%. Le regioni nelle quali il fenomeno è più diffuso sono l’Umbria e la Sardegna, rispettivamente l’6,9% e il 7,9% della popolazione. Campania, Lombardia e Trentino-Alto Adige sono, invece, le Regioni con l’incidenza più bassa: il 4,4%, 4,1% e 3,8%.
L’incidenza è molto alta tra le persone anziane: quasi 1 milione e mezzo di ultra settantacinquenni, cioè più del 20% della popolazione in quella fascia di età, si trovano in condizione di disabilità e un milione tra loro sono donne. Le persone con limitazioni gravi hanno un’età media più elevata di quella del resto della popolazione: 67,5 contro 39,3 anni. Il 29% vive da solo, il 27,4% con il coniuge, il 16,2% con il coniuge e i figli, il 7,4% con i figli e senza coniuge, circa il 9% con uno o entrambi i genitori, il restante 11% circa vive in altre tipologie di nucleo familiare. Ma come detto si tratta di stime.
Alessandro Solipaca, ricercatore di ISTAT e membro dell’osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, un organismo della presidenza del Consiglio dei ministri, spiega che i dati attuali sono autoriferiti, cioè basati sulle risposte delle persone ai sondaggi, e che per avere stime più affidabili servirebbe un campionamento più specifico rispetto a quello attuale.
Questo limite sarà parzialmente superato da un progetto a cui ISTAT sta lavorando da tempo: «Miglioreremo la qualità delle informazioni in generale e anche su singoli ambiti dell’inclusione. I provvedimenti presi dal governo devono individuare chiaramente le persone a cui sono rivolti: dati migliori consentono di promuovere politiche migliori».
Anche gli interventi per favorire la conciliazione tra il lavoro e la cura di un famigliare con disabilità sono stati inefficaci, come testimoniano le carriere lavorative dei cosiddetti caregiver, spesso meno rilevanti di quelle del resto della popolazione. È un problema che riguarda in particolare le donne.
Le famiglie continuano ad avere un ruolo essenziale intorno a cui le istituzioni, dal governo agli enti locali, hanno sviluppato una serie di interventi di sostegno.
E’ chiaro che più dati e informazioni dovrebbero consentire non soltanto di conoscere meglio le condizioni di vita delle persone con disabilità nei diversi ambiti e la diversa gravità delle loro limitazioni, ma anche di individuare le varie barriere che determinano i loro svantaggi.